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IN QUALI CASI IL PETTEGOLEZZO POTREBBE COSTARTI CARO?

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IN QUALI CASI IL PETTEGOLEZZO POTREBBE COSTARTI CARO?
Una delle attività più richieste da privati ed aziende alle agenzie investigative specializzate in web intelligence è la ricerca di prove della diffamazione online. Attraverso delle indagini OSINT e SOCMINT gli investigatori privati possono effettuare la ricerca, raccolta ed analisi di dati e di notizie  tratte da fonti aperte, ovvero liberamente disponibili, volte ad indentificare le offese o l’attribuzione di fatti per mezzo del web ad un soggetto fisico o giuridico, come ad esempio l’individuazione di notizie false sul conto della vittima.
Tutte le informazioni raccolte all’interno della rete, data la natura mutevole di questa, vengono quindi cristallizzate nel tempo tramite software specifici che permettono di conservare l’informazione anche qualora venisse cancellata.
Ma quando il comune “pettegolezzo” può causare gravi conseguenze?
Alcune informazioni, se rivelate, possono costare caro: una querela o, negli ambienti lavorativi, il licenziamento. Possono essere anche informazioni vere e non mere offese o supposizioni: chi parla “troppo” rischia una condanna penale per la violazione dell’art. 595 del Codice Penale, che norma, appunto, la diffamazione. Non perché il pettegolezzo sia vietato dalla legge in sé (considerando che se un’informazione è stata fornita ad altri dallo stesso “protagonista” la sua diffusione non è reato), ma perché vi sono delle affermazioni che hanno di fatto lo scopo di ledere l’immagine di qualcuno.
Il reato di diffamazione si integra in presenza dei seguenti tre elementi:
  • l’assenza della persona offesa: l’impossibilità di difendersi rende maggiore la potenzialità offensiva della diffamazione;
  • il danno alla reputazione della persona offesa: alcune affermazioni possono ledere la dignità e la sfera morale della persona e la sua credibilità;
  • la presenza di almeno due persone (diverse dal diffamatore e dalla persona offesa) che vengono a conoscenza, tramite il diffamatore, di fatti reali o inventati sul conto della persona offesa. Per la giurisprudenza è sufficiente che la diffamazione raggiunga anche una sola persona, che a sua volta trasferisca tali informazioni ad altri.
Si tratta di un cosiddetto reato di evento, che si configura nel momento in cui la terza persona percepisce le parole diffamatorie. Ma a diffamare non sono solo le parole, ma anche un disegno, una foto, un gesto.
Secondo la giurisprudenza italiana la diffamazione via web costituisce un atto di diffamazione aggravata, poiché particolarmente lesiva per la vittima, data l’incontrollabile diffusione delle ingiurie ed il numero potenzialmente illimitato delle persone che si possono raggiungere.
Gli insulti rivolti tramite app di messaggistica come WhatsApp ad un solo interlocutore, destinatario delle ingiurie, non comporta il reato di diffamazione, che invece si integra quando la diffamazione viene divulgata a più persone come nei casi dei gruppi WhatsApp, comprendendo quindi altre persone e non direttamente il destinatario dei messaggi. Se il destinatario delle offese non è tra i partecipanti della chat di gruppo nella quale vengono pubblicate le diffamazioni, si parla di diffamazione aggravata. Se il destinatario è invece presente, si può parlare di ingiuria aggravata, come stabilito dalla Sentenza della Cassazione n. 10905/2020 (in allegato).
L’articolo 594 c.p. che normava il reato di ingiuria, però, è stato depenalizzato, ai sensi del Decreto Legislativo 15 gennaio 2016, n. 7, articolo 1, comma 1, lettera C), e la sentenza in esame è stata quindi annullata senza rinvio, perché il fatto così considerato non costituisce più reato.

Scarica l'allegato
Sentenza n. 10905.pdf


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