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LAVORO: QUAL È LA DIFFERENZA TRA STRAINING E MOBBING?

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LAVORO: QUAL È LA DIFFERENZA TRA STRAINING E MOBBING?
L’Ordinanza del 02 Marzo 2021, n. 5639, della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, ha assegnato la definizione di straining a quanto accaduto ad un operatore di segreteria di una scuola media, presso la quale aveva prestato servizio, come supplente, per un anno.
Nella precedente sentenza la situazione vissuta dall’uomo era stata inquadrata come mobbing, poi la Corte d’Appello e la Cassazione hanno ritenuto che la vicenda avesse invece le caratteristiche dello straining, condannando l’istituto scolastico ed il Ministero al risarcimento del danno biologico provocato al dipendente, escludendo in questo modo il danno permanente. A provocare i danni alla salute del lavoratore erano stati degli atteggiamenti di “aggressiva sfiducia”, messi in atto dalla DSGA (direttrice dei servizi generali e amministrativi) della scuola e volti a denigrare l’operatore.
Ad esempio, la DSGA avrebbe detto all’uomo che se fosse morto avrebbe risolto i suoi problemi, o gli avrebbe assegnato particolari mansioni, come la trascrizione di alcuni documenti, senza però dotarlo della necessaria strumentazione informatica. Questi comportamenti della DSGA hanno causato una malattia psicopatologica all’uomo, diagnosticata come disturbo dell’adattamento con ansia e umore depresso, con un danno biologico di 10 mesi.
Il Giudice d’Appello aveva escluso il danno permanente, e l’operatore si era rivolto alla Cassazione, che però ha confermato quanto deciso dal Giudice. L’operatore aveva quindi sollevato come motivo di doglianza il fatto che gli abusi da lui subiti fossero stati in qualche modo sottovalutati, poiché qualificati come straining e non come mobbing.
Ma il collegio della Sezione Lavoro, rigettando la richiesta dell’uomo, con l’Ordinanza del 2 Marzo 2021, ha specificato che la riduzione della somma del risarcimento non era una conseguenza della diversa denominazione dell’illecito, ma dal diverso apprezzamento del danno, che dall’essere stato definito permanente in prima istanza, dall’analisi più approfondita risultava essere invece temporaneo, e non invalidante nella capacità di guadagno.
La Sezione Lavoro, già con la precedente pronuncia n. 3291 del 2016, aveva stabilito che il datore di lavoro è obbligato ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del lavoratore, ad esempio costringendolo a condizioni lavorative “stressogene”, come nello straining.
Il Giudice di merito, quindi, pur accertando l’inesistenza di un vero e proprio atto persecutorio, idoneo ad identificare una condotta di mobbing, deve valutare anche i singoli comportamenti denunciati dal lavoratore, in sequenza casuale, che possono essere considerati mortificanti per chi li subisce e come tali ascrivibili alla responsabilità del datore di lavoro.
Per chiarire maggiormente, prendiamo come esempio anche l’Ordinanza 19 febbraio 2018 n. 3977 della Corte di Cassazione, che esaminava il caso di una insegnante alla quale era stato riconosciuto un risarcimento danni per straining. La donna aveva subìto forzatamente uno stato di stress, inflitto dal suo superiore, tramite azioni volte a discriminarla, sottraendole gli strumenti di lavoro o riducendo le mansioni a lei assegnate. La vicenda era stata qualificata come straining, una forma attenuata del mobbing perché priva della continuità delle azioni, ma comunque di gravità tale da provocare un danno all’integrità psico-fisica del dipendente, giustificando quindi il risarcimento del danno.
Così come il mobbing, anche lo straining, per essere denunciato, deve essere dimostrato con prove incontestabili, che possono essere raccolte grazie all’intervento di una agenzia investigativa autorizzata. Queste condotte sono molto frequenti, e spesso vengono messe in atto da alcuni dirigenti aziendali per costringere il lavoratore ad abbandonare il proprio posto di lavoro spontaneamente, invece di licenziarlo, oppure per una forma di ritorsione, perché ad esempio il dipendente ha denunciato ai superiori delle irregolarità sul posto di lavoro, o perché non ha assecondato condotte immorali perpetrate in azienda, come avances o azioni illegali.


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