La sana competitività è un valore indispensabile per le aziende che vogliono inserirsi in un mercato ormai globalizzato. Spesso però c’è chi per ottenere dei vantaggi sui competitor mette in atto degli illeciti, come quelli legati alla concorrenza sleale. Per questo molte aziende hanno deciso di integrare la clausola del patto di non concorrenza nel contratto dei propri dipendenti, soprattutto dei dirigenti. Una delle principali motivazioni per cui le aziende si rivolgono alle agenzie investigative autorizzate è proprio la verifica del rispetto di tale patto.
L’onere della prova della sua violazione, infatti, è in capo all’ex datore di lavoro, e le indagini mediante agenzia investigativa permettono di documentare tutte le attività di non adempimento al patto di non concorrenza di dipendenti e soci, ottenendo prove valide da utilizzare in sede di giudizio.
L’art. 2125 cod. civ. in merito al patto di non concorrenza stabilisce:
• che debba risultare da un atto scritto;
• che debba avere limiti temporali prefissati: 5 anni per i dirigenti e 3 anni per tutti gli altri lavoratori;
• che venga definito l’oggetto;
• che venga definito l’ambito territoriale di pertinenza;
• che preveda un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro che sia proporzionale alla durata dell’obbligo.
I casi più frequenti di violazione del patto di non concorrenza, sono i seguenti:
• svolgimento di un’attività lavorativa in concorrenza con quella dell’ex datore;
• storno di dipendenti in favore di un’azienda competitor;
• sviamento di clientela in favore di un’azienda competitor.
Su quest’ultimo punto la Cassazione si è espressa con la recente Sentenza 22247/2021 (in allegato) che prende in esame il caso di un ex dirigente di una banca, colpevole di aver stornato un importante cliente dell’ex datrice di lavoro a favore di un competitor. Il caso ha fatto particolarmente discutere non tanto per le decisioni di merito, che hanno seguito una giurisprudenza in materia già affermata, quanto per l’ingente penale che il dipendente ha dovuto corrispondere all’ex datrice. La sanzione ammonta a 300mila euro, ossia circa tre volte e mezzo il suo stipendio annuale lordo. Questa decisione ha creato un precedente importante, dettata dal fatto che il responsabile dell’illecito ricopriva un ruolo apicale e che la perdita del cliente stornato aveva causato gravi danni all’istituto di credito oggetto di illecito.
Inoltre l’ex dipendente percepiva, per il rispetto di tale patto, un corrispettivo economico proporzionato alle restrizioni che gli venivano imposte, estese in modo tale da non compromettere in alcun modo la sua capacità reddituale e la sua professionalità.
Un’altra importante conferma emersa dalla sentenza è la possibilità di erogare il corrispettivo del patto anche in corso di rapporto, in contrapposizione con molte delle precedenti pronunce in materia, che ritenevano che il corrispettivo così erogato non fosse determinato o determinabile, poiché non era possibile prevedere la durata del rapporto.
Il datore di lavoro, ottenute le prove dell’illecito, grazie agli investigatori privati, può agire in giudizio, per chiedere il risarcimento dei danni provocati all’azienda e la restituzione della somma versata a titolo di corrispettivo o chiedendo un’azione inibitoria.