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GOOGLE ADS E CONCORRENZA SLEALE: L’ABUSO DI KEYWORDS

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GOOGLE ADS E CONCORRENZA SLEALE: L’ABUSO DI KEYWORDS
Le agenzie investigative sono per le aziende il principale riferimento nei casi di concorrenza sleale, non solo per individuare i colpevoli, le modalità e le soluzioni, ma anche per ottenere prove inconfutabili, da utilizzare in sede di giudizio. La concorrenza sleale può essere messa in atto dagli stessi dipendenti di un’azienda, dai soci o da aziende competitor.
La legge identifica come concorrenza sleale (normata dall'art. 2598 e dall’art. 2600 del codice civile) la condotta di chi, utilizzando nomi e segni distintivi appartenenti legittimamente ad altri, crea confusione sul mercato. Vi sono molte tipologie di concorrenza sleale, volte ad ottenere un vantaggio sui propri diretti concorrenti, e nell’ultimo periodo, tra i più diffusi, vi è l’utilizzo illecito dei nomi e loghi registrati da altri.
Gli investigatori privati vengono sempre più spesso chiamati dalle aziende ad intervenire con indagini tradizionali ed indagini OSINT nei casi di concorrenza sleale consumati in rete, come l’abuso di keywords nell’ottimizzazione delle proprie campagne Google Ads o più in generale nell’indicizzazione del proprio sito, utilizzando, appunto, parole chiave riferibili ai competitor.
L’Ordinanza del 27 aprile 2021 del Tribunale di Bari (in allegato) tratta uno di questi casi, andando a delineare meglio questo tipo di concorrenza, definendola parassitaria o “confusoria”.
La controversia riguarda una nota azienda di consegna piante e fiori a domicilio, titolare del marchio registrato utilizzato da un’azienda competitor per sponsorizzare un annuncio Google Ads.
L’azienda ricorrente, effettuando delle verifiche online, si era infatti accorta che, digitando all’interno del motore di ricerca Google il nome del proprio brand, appariva un annuncio pubblicitario che rinviava ad una azienda competitor.
La ricorrente, quindi, aveva diffidato più volte l’azienda competitor, intimandole di interrompere in maniera immediata l’utilizzo abusivo del proprio marchio, ma senza successo. Si è così passati all’azione legale.
Tale pratica in linea di principio potrebbe anche non essere considerata illegittima, ma nel caso specifico “realizzava un effetto confusorio, tale da escludere ogni sua legittimità e da consentire, invece, alla titolare del marchio (ricorrente) di vietare – anche ai sensi di quanto disposto agli artt. 5, n. 1 dir. 89/104 e 9, n. 1, lett. c) reg. 40/94 – alla resistente di far apparire, a partire dalla keyword identica al proprio marchio, un annuncio pubblicitario per prodotti e servizi identici a quelli per i quali il marchio è registrato”.
Oltretutto l’azienda ricorrente aveva ricevuto numerosi reclami da parte di asseriti clienti, che lamentavano ritardi, disservizi e scarsa qualità dei prodotti, tutti riconducibili ad ordini effettuati sul sito dell’azienda competitor, ma erroneamente attribuiti all’azienda proprietaria del marchio sfruttato.
Elementi che comprovano che l’uso del marchio della ricorrente, come keyword da parte del competitor, pregiudica sia “la funzione essenziale del marchio di garantire ai consumatori la provenienza del prodotto, ma anche quella di garantire la qualità dei loro prodotti o servizi, con effetto confusorio e pregiudizio dell’affidabilità del marchio”.
Tutelarsi da questo tipo di illeciti è fondamentale, per salvaguardare il proprio patrimonio aziendale e la propria reputazione, ed in questo le indagini dettagliate degli investigatori privati rappresentano uno strumento utile dal punto di vista legale, avendo valore probatorio, e dal punto di vista operativo, essendo di supporto per studiare misure di sicurezza più idonee, da adottare per la difesa del proprio marchio.

Scarica l'allegato
Ordinanza Keywords.pdf


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