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COMMENTI, HASHTAG, CHAT: QUANDO CAUSANO IL LICENZIAMENTO?

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COMMENTI, HASHTAG, CHAT: QUANDO CAUSANO IL LICENZIAMENTO?
L’avvento di internet ha segnato una svolta epocale nelle relazioni sociali, comprese quelle lavorative.
Sono nate nuove professioni legate al web, mentre quelle “tradizionali” hanno potuto contare sull’apporto che internet ha dato alla risoluzione di molteplici problemi. Di contro, sono lievitati in maniera incontrollata gli illeciti commessi attraverso la rete. Per analizzare tutti gli elementi legati a questo tipo di illeciti ci si rivolge alle agenzie investigative autorizzate e specializzate in web intelligence e cyber security.
Le aziende, negli ultimi anni, chiedono agli investigatori privati di individuare gli illeciti digitali consumati dai propri dipendenti, ed in alcuni casi si arriva al licenziamento per giusta causa, anche solo per colpa di un commento, oltre che alle più frequenti sanzioni disciplinari.
Infatti, attraverso delle indagini OSINT/SOCMINT è possibile monitorare reti e canali social per identificare profili, relazioni, organizzazioni e tracciare reti di conoscenze che permettano di costruire un diagramma del contesto in analisi.

Ma quali sono i rischi che un lavoratore corre quando utilizza gli strumenti che ha a disposizione, come i social network?
In una recente sentenza del 26 luglio 2021 il Tribunale di Taranto si è pronunciato sulla vicenda del dipendente dell’ex Ilva licenziato per aver commentato sul suo profilo Facebook una fiction sul dramma delle acciaierie, accusando l’azienda per la quale lavorava, concludendo il post con la parola “assassini”. Il lavoratore è stato licenziato per questo, ma la sentenza di qualche giorno fa ha deciso per il suo reintegro, poiché il giudice, pur ritenendo la frase offensiva, l’ha valutata troppo generica e non contestualizzata, visto che la fiction a cui si riferiva era ambientata negli anni 2000. Il licenziamento non è stato quindi ritenuto legittimo.
A pesare sulla legittimità delle decisioni prese dal datore di lavoro è il giudizio di proporzionalità, una valutazione complessa, che analizza ogni fattore oggettivo e soggettivo. Per questo ogni caso va analizzato a sé.
La sentenza n. 175 del 5 luglio 2021, del Tribunale di Ancona, ad esempio, ha trattato il caso di un dipendente che ha recensito negativamente l’azienda per la quale lavorava su Google My Business, votando con una sola stellina su cinque e aggiungendo il commento: “Lasciate ogni speranza…”. Secondo il giudice, sebbene il dipendente lo avesse definito ironico, il suo intervento è da ritenersi offensivo e sufficiente a ledere il vincolo fiduciario con il datore di lavoro. Ma il licenziamento è stato ritenuto sproporzionato, preferendo una sanzione disciplinare conservativa.
Il licenziamento è stato invece ritenuto legittimo, con sentenza n. 298 del 1 aprile 2021 del Tribunale di Crotone, per un lavoratore che aveva aggiunto a dei commenti offensivi, contro l’azienda datrice, anche degli hashtag, che secondo il Tribunale “contribuiscono alla maggiore diffusione del messaggio”.
Nei casi di dipendenti pubblici vi è proprio l’art. 10 del Codice di comportamento dei pubblici dipendenti che vieta espressamente di pubblicare online, in ogni forma, “dichiarazioni inerenti l’attività lavorativa, indipendentemente dal contenuto se esse siano riconducibili, in via diretta o indiretta, all’ente”. Ogni violazione viene quindi gravemente sanzionata.
Come invece avevamo scritto in un nostro recente articolo sul tema, consultabile cliccando QUI, la Corte Europea, con la pronuncia 35786, ha affermato che non basta un semplice like a causare il licenziamento, e se intimato per questo motivo potrebbe rappresentare una violazione dell’art. 10 della Carta europea dei diritti, che tutelala libertà di espressione. Invece le offese pubblicate sui social, o condivise, possono portare al licenziamento per giusta causa, e la Cassazione lo ha ribadito più volte, soprattutto se si tratta di commenti che diffondono informazioni false, che insinuano, offendono e che non sono giustificabili.
Gli insulti e le minacce diffusi invece tramite chat privata, tra colleghi, sono per la Cassazione comunicazioni private, che escludono la volontà di diffusione pubblica, facendo quindi prevalere quanto dettato dall’art. 15 della Costituzione sulla segretezza della corrispondenza.
Inoffensive anche le frasi, gli insulti e le lamentale generici, non riferiti espressamente all’azienda o alla dirigenza, soprattutto se il riferimento non è desumibile in alcun modo.


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