Con la
Sentenza della
Cassazione n. 33809 del 12 novembre 2021 (in allegato) si ritorna a parlare della
violazione dei
doveri di
fedeltà e di
diligenza del dipendente, che può portare al
licenziamento per giusta causa.
Nel caso di specie, la
Cassazione si esprime sulla vicenda di un lavoratore, colpevole di aver
cancellato dei
dati dal computer aziendale in suo utilizzo, dati che, dunque, erano di
proprietà del
datore di lavoro, con lo scopo di eliminare le
prove degli
illeciti ad egli attribuiti.
La sentenza, di fatto, conferma la
legittimità dei
controlli del
datore di lavoro sulla strumentazione informatica data in dotazione al
dipendente, che si possono richiedere anche ad
una agenzia investigativa autorizzata.
Come specificato in un nostro recente articolo, consultabile
cliccando qui, a seguito delle modifiche apportate all’
art. 4 dello Statuto dei Lavoratori dall’
art. 23 del Dlgs 151/2015, attuativo del Jobs Act poi integrato dal
Dlgs 185/2016, il datore di lavoro è
autorizzato ad effettuare dei
controlli sui dispositivi informatici utilizzati dai dipendenti, lì dove si sospetti il compimento di un
illecito, anche
ex post, ossia dopo l’attuazione del comportamento illecito (come in questo caso).
Le informazioni così raccolte possono essere utilizzate dal datore di lavoro per tutti gli scopi connessi al rapporto di lavoro, compresi quelli
disciplinari.
Gli
investigatori privati, in questi casi, svolgono attività di
computer forensic, per l'individuazione, la conservazione, la protezione, l'estrazione, la documentazione e ogni altra forma di trattamento dei dati informatici, ed attività di
web intelligence,
OSINT e
SOCMINT.
Cancellare i dati dal pc aziendale integra, in questo caso, il
reato di cui all’
art. 635 bis c.p. di
Danneggiamento di informazioni, dati e programmi informatici, reato che sussiste anche qualora i dati fossero recuperabili grazie all’intervento di un tecnico specializzato, senza violare in alcun modo la
privacy del lavoratore.
Il
diritto alla riservatezza, infatti, secondo i Giudici, viene meno di fronte al
diritto alla difesa: i dati personali possono essere trattati anche senza il consenso del titolare, se ciò è finalizzato alla
tutela di un diritto in sede di giudizio, a fronte dei
danni patrimoniali cagionati dal dipendente al datore di lavoro, in questo caso.
I dati devono essere trattati
esclusivamente per tali finalità e per il
periodo strettamente necessario al loro perseguimento.
Per la produzione in giudizio di documenti contenenti dati personali - che secondo la Cassazione, come abbiamo visto, è sempre consentita - deve essere garantito il rispetto dei
doveri di correttezza,
pertinenza e
non eccedenza (art. 9, lett. a) e d) l. 675/1996): la legittimità della produzione si basa sul bilanciamento tra il
contenuto del dato utilizzato, il grado di
riservatezza e le
esigenze di difesa.
Gli
investigatori privati, dunque, possono garantire, per l’autorizzazione concessa loro dalla Prefettura e per le loro competenze specifiche, la raccolta degli elementi di prova nel
rispetto di tali
normative e
principi.
In conclusione, la
Cassazione accoglie la richiesta dell’azienda danneggiata di ottenere dall’ex dirigente un
risarcimento per
danni all’immagine ed alla
reputazione professionale, a causa della
violazione dell’
obbligo di fedeltà del dipendente.